*L’immagine è “Balfiore + Luci” di Giacomo Balla, Anni ’20
Per anni ho pensato che lavorare in un team autogestito fosse il sogno di chiunque. Chi non vorrebbe avere più autonomia e contribuire alle decisioni? Ma dopo dieci anni di ricerche e oltre cento casi studiati, ho capito che l’autogestione non è adatta a tutti.
Come scrivono Bettina Rollow e Joana Breidenbach, molte persone traggono sicurezza da regole e strutture. Di fronte alla libertà, alcuni provano ansia e insicurezza. Per loro, l’autorganizzazione può essere uno stress più che una liberazione.
Nel 2015, Tony Hsieh annunciò che Zappos avrebbe adottato Holacracy. Ai dipendenti contrari fu offerto un incentivo economico per andarsene: il 14% accettò subito, il 18% nei mesi successivi. Secondo i media, fu un segno che il modello non funziona. Ma in realtà è un dato coerente: in molte organizzazioni che intraprendono questo percorso, tra il 10 e il 20% delle persone sceglie di uscire.
Non tutti si trovano bene con la nuova distribuzione del potere. Alcuni manager preferiscono ruoli più tradizionali; alcuni collaboratori faticano a gestire l’autonomia. È corretto, e persino gentile, supportare chi sceglie di cercare contesti più adatti.
Uno studio di Michael Y. Lee, basato su 12 mesi di sperimentazione in team autogestiti, ha evidenziato che le persone con buone performance, interesse per l’autogestione e Sicurezza Psicologica pregressa, migliorano in coinvolgimento e soddisfazione. Al contrario, chi ha poca padronanza del ruolo o scarso interesse peggiora. Il passaggio a un modello meno gerarchico migliora la vita lavorativa di alcuni, e la peggiora per altri.
Molti leader pensano che l’autogestione sarà universalmente accolta con entusiasmo. Ma non tutti reagiscono nello stesso modo. Alcuni si mostrano scettici, altri cinici, altri ancora aspettano che la novità passi. Sapere in anticipo che le reazioni saranno varie aiuta a gestire meglio il processo.
Quali principi aiutano ad affrontare una trasformazione?
- Essere onesti su cosa comporta
Evita di vendere l’autogestione come un’utopia. Meglio raccontare cosa può portare in concreto: più autonomia, maggiore velocità decisionale, connessione con lo scopo. Chiarisci che non c’è una mappa predefinita: il processo va co-costruito. L’onestà serve anche in fase di selezione: essere trasparenti aiuta a evitare incomprensioni e ad attrarre persone motivate.
- Verificare i prerequisiti
I prerequisiti di contesto sono fondamentali per avviare una trasformazione sostenibile. Iniziate da team più “pronti” aumenta le probabilità di successo. Alcune condizioni fondamentali sono:
- Clima di Sicurezza Psicologica: le persone si sentono libere di sbagliare, fare domande, esprimere dubbi
- Collaborazione reale: comunicazione aperta, cultura del feedback, capacità di gestire tensioni
- Interesse per l’autogestione: anche solo curiosità o apertura al cambiamento
- Purpose condiviso: un “perché” chiaro, sentito da tutti
- Autostima e competenza: buona consapevolezza di sé, fiducia, performance solida
Senza questi fattori, il rischio di fallimento è molto alto.
- Supportare senza creare dipendenza
Serve un supporto leggero, ma costante. Non bisogna proteggere le persone dal disagio della crescita: infantilizzarle crea dipendenza. Ma neppure abbandonarle. Alcuni strumenti utili:
- Spazi di ascolto, dove ex manager e collaboratori possano condividere difficoltà e paure senza essere “corretti”
- Coach interni, formati per aiutare con domande, prospettive esterne e accompagnamento alle scelte
- Allenamento a nuove competenze: ascolto attivo, feedback adulto-adulto, gestione dei conflitti, approccio non direttivo
- Non interrompere l’esperimento troppo presto
Molti founder iniziano con entusiasmo, poi cambiano rotta dopo pochi mesi. Lo schema tipico: entusiasmo → prime difficoltà → calo nei risultati → panico del leadership team → ritorno alla gerarchia.
In questi casi è facile concludere: “le persone vogliono essere guidate”, “non sono pronte”, “non hanno capito”. Ma la realtà è che il processo è non lineare e richiede tempo.
Come suggerisce Margaret Wheatley, possiamo pensare a una ragnatela: quando c’è tensione, possiamo riconnettere i fili. Chi ha bisogno di essere ascoltato? Chi ha idee per affrontare il nodo? Chi si sente isolato?
Dopo dieci anni di osservazione, emerge un dato: servono almeno due anni prima che una struttura autogestita inizi a funzionare con maturità. Serve pazienza. E la disponibilità a stare nel processo.
Conclusione
L’autogestione non è per tutti, e non c’è nulla di sbagliato in questo. Non significa abbandonare il progetto o trattare le persone come incapaci. Significa solo riconoscere che ogni gruppo umano è unico, e va accompagnato con consapevolezza e rispetto.
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**La presente sintesi è stata realizzata con l’IA e rivista dai consulenti PRIMATE.
***Fino ad ora abbiamo utilizzato un linguaggio inclusivo inserendo i corrispettivi femminili dei termini e usando la vocale schwa (ə) quando possibile; purtroppo diversi lettori ci hanno segnalato che queste soluzioni rendevano poco scorrevoli gli articoli, pertanto abbiamo scelto di ripristinare le frasi al maschile solo per facilitare la lettura.