*L’immagine è “Sweeper” di Banksy
Quando il leader diventa il “risolutore automatico”, l’organizzazione paga: si creano colli di bottiglia decisionali, cala l’ownership delle persone e cresce il burnout manageriale. Elizabeth Lotardo lo mostra con un caso esemplare: Sven (sales) scarica su Laura (CRO) un cliente furioso per ritardi, prodotto danneggiato e sconto non applicato. Laura interviene “per supportarlo” e aggiunge il punto n. 143 alla sua lista. Sollievo immediato per entrambi, ma nel tempo Sven si sente sempre meno capace, Laura si sfianca e i risultati calano. È la dinamica della learned helplessness: più il capo risolve, più il team disimpara a farlo.
L’alternativa non è chiudere la porta, ma restare accessibili cambiando postura: dal fare al posto loro al farli crescere.
Lotardo propone cinque domande che mantengono il canale aperto e rimettono la palla ai piedi di chi porta il problema.
1. “Cosa hai già provato?”
Non è un rifiuto: comunica un’aspettativa di tentativo (anche minimo) prima di “salire di livello”. Le prime volte arrivano silenzi o “nulla”. Poi le persone imparano ad anticipare la domanda, arrivano con ipotesi e smettono di passare “problemi grezzi”. Un director tech, per esempio, ha visto le 1:1 passare da sfoghi su disfunzioni a conversazioni con proposte parziali e follow-through migliore.
2. “Chi o cosa ti sta impedendo di affrontarlo?”
Se la persona non ha agito, deve almeno saper nominare l’ostacolo (budget, tempi, sign-off, reparto non responsivo, fornitore). Rimuovere la barriera sistemica è più efficiente che prendersi in carico l’intero problema e aiuta a mappare pattern ricorrenti (es. approvazioni lente) su cui costruire soluzioni più stabili.
3. “Di quale supporto hai bisogno?”
Non “da me”, volutamente. Il supporto può arrivare da pari, da altri leader, da funzioni adiacenti o risorse esterne. Allargare la rete di aiuto accelera le soluzioni e riduce la dipendenza dal manager, facendo crescere connettività e collaborazione tra team.
4. “Cosa faresti se fossi al mio posto?”
Quando il capo risolve, il team non vede il lavoro invisibile (trade-off, politica interna, rincorse, rischi). Questa domanda sposta parte del carico cognitivo sulla persona, la fa ragionare “da sopra” e costruisce criterio decisionale. Un leader customer success, sommerso da escalation orarie, ha visto idee più ponderate, più pazienza sui tempi di soluzione e zero “stesso problema due volte”. La ricerca conferma: coinvolgere il team nel decision-making aumenta efficacia ed engagement individuale nel tempo.
5. “C’è altro che dovrei sapere?”
Spesso il problema sale solo per non cogliere di sorpresa il capo. Ringrazia, chiedi se manca un’informazione critica e lascia la soluzione in capo a chi l’ha portato. Distinguere “essere al corrente” da “prendere in carico” è vitale per non ricadere nel micromanagement.
Questo set di domande non toglie compassione: sposta l’energia da “fare” a “far fare”. Resti presente, ma alleni autonomia, responsabilità e capacità di giudizio. Nel medio termine diminuirà il volume di task sulla tua scrivania (non c’è meditazione che regga a un sovraccarico cronico) e aumenterà la qualità delle soluzioni generate dal team.
Per applicarle bene:
- Pre-imposta l’aspettativa. Dichiara apertamente che vuoi persone che arrivino con tentativi, ostacoli chiari e possibili next step.
- Sii coerente sotto pressione. Le vecchie abitudini tornano nei momenti caldi: resisti alla tentazione di “prendere il volante” al primo scossone.
- Rimuovi le barriere di sistema. Se la radice è un processo di approvazione farraginoso o un hand-off tra funzioni, intervieni lì: risolvi una volta, sblocchi per sempre.
- Riconosci pubblicamente la buona ownership. Premia il coraggio di agire, non solo l’esito. È così che si cementa la cultura.
Messaggio chiave: il supporto migliore non è risolvere al posto delle persone, ma costruire la loro capacità di risolvere. Con queste cinque domande rimani accessibile, proteggi il tuo tempo e fai crescere la squadra. Solo così la leadership resta sostenibile e il team diventa davvero protagonista dei risultati.
Clicca qui per leggere l’articolo completo di Elizabeth Lotardo sulla Harvard Business Review
**La presente sintesi è stata realizzata con l’IA e rivista dai consulenti PRIMATE.
***A lungo abbiamo adottato un linguaggio inclusivo, usando anche la vocale schwa (ə). Diversi lettori ci hanno però segnalato che questo rendeva gli articoli meno scorrevoli, perciò abbiamo scelto di tornare a una forma al maschile per favorire la lettura. PRIMATE resta profondamente sensibile ai temi di Diversity, Equity & Inclusion e continuerà a promuovere una cultura organizzativa rispettosa e inclusiva, in ogni sua forma.