*L’immagine è “One Nation Under CCTV” di Banksy

Siamo cresciuti con l’idea che i leader efficaci siano forti, assertivi e carismatici. Ma un nuovo studio mostra che le persone, nella realtà, cercano altro. Vogliono qualcuno che ascolti, si preoccupi e agisca con integrità. Non un capo perfetto, ma un essere umano capace di relazione.

È questa la conclusione della ricerca di Erica R. Bailey (UC Berkeley Haas) e Rebecca Ponce de Leon (Columbia Business School), che ribalta decenni di teorie sulla leadership. Lo studio — The Preeminence of Communality in the Leadership Preferences of Followers, pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology — analizza come le persone percepiscono il “leader ideale” rispetto al “leader tipico”. E i risultati mettono in discussione un intero paradigma.

Quando la professoressa Bailey chiede ai suoi studenti MBA che tipo di leader vogliono essere, le parole più ricorrenti sono “empatico, affidabile, ispiratore”. Ma quando chiede di descrivere un leader “tipico”, emergono aggettivi molto diversi: “potente, assertivo, dominante”.

Per decenni, la ricerca ha identificato la leadership con l’orientamento agentico — cioè tratti legati all’ambizione, all’indipendenza, al controllo — mentre ha ignorato la dimensione prosociale, fatta di apertura, moralità, connessione e calore umano.

Bailey e Ponce de Leon sostengono che abbiamo posto le domande sbagliate: ci siamo concentrati su chi ottiene il potere, non su chi le persone desiderano seguire. In altre parole, abbiamo studiato i leader, ma non i collaboratori.

La loro ricerca — otto studi preregistrati con oltre 3.600 partecipanti, tra studenti MBA e lavoratori — rivela un pattern costante: le persone preferiscono leader con tratti prosociali.

  • Gli studenti hanno usato il doppio dei termini legati a onestà, equità e cura per descrivere un leader ideale rispetto a un leader tipico.
    • In un test di preferenza tra coppie di tratti, il 66% ha scelto quelli prosociali (onesto, empatico, giusto) rispetto a quelli agentici (competitivo, dominante, ambizioso).
    • Anche nei test di simulazione aziendale, i manager altamente prosociali sono stati valutati meglio, anche quando avevano minori livelli di assertività.
  • Al contrario, chi era forte sul piano agentico ma povero sul piano prosociale risultava il meno desiderato come capo.

Bailey lo riassume così: “I collaboratori preferiscono tratti agentici solo quando il leader è anche altamente prosociale”. La forza, da sola, non basta: dev’essere temperata dalla relazione.

Perché? Perché, spiega Bailey, “quando dai potere a un leader, vuoi essere sicuro che lo userà per il tuo bene”. Le persone si fidano più della moralità che dell’efficienza.
In termini di psicologia sociale, preferiamo essere guidati da chi ci tratta con rispetto, non da chi è semplicemente capace. Questo vale ancora di più per chi ha esperienza: tra Gen X e Boomer la preferenza per leader empatici e di supporto è risultata ancora più forte. “A un certo punto della carriera — nota Bailey — non vuoi qualcuno che ti dica cosa fare, ma qualcuno che ti aiuti a diventare la versione migliore di te stesso.”

Se le persone vogliono leader più umani, perché le aziende continuano a promuovere chi mostra tratti dominanti? Bailey individua tre cause principali:

  1. Inerzia culturale — L’idea di leadership come forza individuale è così radicata che, quando si sostituisce un capo, si tende a “copiare” il modello precedente.
  2. Stereotipi di genereI tratti prosociali sono percepiti come “femminili” e quindi meno valorizzati, mentre le donne che mostrano assertività vengono penalizzate per “violazione delle aspettative”.
  3. Autoselezione — Le persone più empatiche e collaborative tendono a non candidarsi a ruoli di leadership, perché credono di non avere “le vere competenze” — quando, in realtà, posseggono proprio le qualità che i collaboratori desiderano.

Bailey e Ponce de Leon propongono tre direzioni concrete per le organizzazioni:

  • Riconoscere e incoraggiare i collaboratori con forti tratti prosociali a candidarsi a ruoli di guida.
  • Coinvolgere la voce dei collaboratori nei processi di selezione e valutazione dei leader.
  • Misurare le competenze relazionali — empatia, equità, autenticità — come indicatori di performance manageriale.

 

In un’epoca in cui la Sicurezza Psicologica è un predittore di performance e innovazione, il messaggio è chiaro: le persone non vogliono capi impeccabili, ma leader affidabili. Come conclude Bailey, “le persone vogliono relazionarsi con altri esseri umani, non con qualcuno che finge di essere infallibile e onnisciente”.

Essere un buon leader, oggi, non significa saper comandare: significa sapersi connettere.

 

Clicca qui per leggere l’articolo completo di Rebecca Ponce de Leon e Erica R. Bailey su UC Berkeley Haas

**La presente sintesi è stata realizzata con l’IA e rivista dai consulenti PRIMATE.
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