La consulente di evoluzione organizzativa: “Non ci possiamo più permettere la divisione tra chi pensa, pianifica/controlla, in alto, e chi fa in basso”
Capizzi: “La gerarchia è obsoleta”
“La gerarchia è un concetto obsoleto, ma molti capi vogliono mantenerla così com’è sempre stata intesa”. Marina Capizzi, consulente di evoluzione organizzativa, Executive coach e co-founder PRIMATE Consulting, ha scritto il primo libro italiano sulla gerarchia.
Capizzi, la gerarchia esiste da sempre, perché porre questo tema oggi?
Sì, la gerarchia esiste da sempre, è stata e continua ad essere la struttura portante delle nostre organizzazioni. Così sono nate le imprese e così continuano ad essere strutturate. Nonostante i moltissimi cambiamenti e le continue riorganizzazioni, infatti, la struttura gerarchica mantiene intatte le stesse logiche che abbiamo ereditato dal passato: il potere decisionale aumenta salendo, come la richiesta di un contributo di pensiero, chi è sopra dice a chi è sotto cosa deve fare e controlla. Questa logica, nella sua essenza, non è stata scalfita neanche da decenni di programmi formativi sulla leadership. Perché porre il tema? Perché oggi le imprese fanno business in modo diverso. Non ci possiamo più permettere la divisione tra chi pensa, pianifica/controlla, in alto, e chi fa in basso. Per il successo delle nostre imprese serve il contributo di tutte le persone, a qualsiasi livello organizzativo. E questo cozza con la gerarchia, per come l’abbiamo ereditata dal passato.
Ci sono degli svantaggi?
Consideriamo solo il fatto che, nella piramide gerarchica, c’è una sola cosa che diminuisce salendo: il contatto con i clienti e gli utenti. Quindi, proprio dove la domanda e l’offerta si incontrano tutti i giorni (nei negozi, nelle filiali, nei call center, durante le visite commerciali), e nelle unità produttive la logica gerarchica prevede “esecutori”, “operativi” o, come vengono ancora chiamati in molte aziende, “sottoposti” praticamente privi di autonomia decisionale. Quando c’è un problema, spesso il decisore sta da un’altra parte, in alto. E quando il problema arriva sul tavolo del decisore, oltre a mettersi in fila e aspettare il suo turno per essere risolto, spesso, chi deve decidere non lo conosce, perché non lo vive tutti i giorni e quindi… riunioni su riunioni! Intanto il problema che forse era nato piccolo si ingrossa, la capacità di risposta rallenta e i decisori, cioè “i capi gerarchici” di fatto fanno da collo di bottiglia… Quindi, pongo il tema della gerarchia perché, per come l’abbiamo ereditata e continua a costituire la struttura portante delle nostre organizzazioni, oggi è “il tema”, e la sua evoluzione sarà la sfida dei prossimi anni. Perché, oltre a far male al business, fa male alle persone. Ci riempiamo di dati che parlano di basso engagement e di demotivazione delle persone, di quiet quitting, great resignation, job hopping, facciamo dibattiti sulla difficoltà di portare i giovani nelle aziende e, soprattutto, sulla difficoltà di trattenerli… come è possibile che non si veda la relazione tra questi fenomeni e gli effetti che la gerarchia anacronistica ha sul benessere delle persone!
Le persone però cercano la gerarchia….
Diciamo che ci sono ancora molte persone che faticano ad andare oltre le logiche obsolete dell’attuale struttura gerarchica e non si accorgono che proprio il mantenimento di quelle logiche è fonte di continue frustrazioni e stress. Innanzitutto, mi riferisco ai “capi” che mantengono in vita convinzioni che non hanno più alcun fondamento, come quella che basti dire a una persona di fare una cosa per avere la certezza che venga fatta, o che si possa controllare tutto “stando sopra”. Le frustrazioni che vivono le persone che ricoprono un ruolo gerarchico sono enormi e non è sempre un tema di incapacità: è il modello che non tiene più perché ai capi viene chiesto molto più di quello che possono realizzare senza aumentare l’autonomia (e quindi la possibilità di contributo) dei loro collaboratori. Ma chi sta in alto fatica a fare un passo indietro perché teme di perdere il proprio potere. Invece, può benissimo mantenere il proprio ruolo gerarchico e, allo stesso tempo avvicinare molti problemi e le loro soluzioni dando ai propri collaboratori la possibilità di prendere più decisioni. Allo stesso modo, molte persone hanno il timore di esporsi per proporre e prendere iniziative, perché la gerarchia si porta appresso la paura dell’errore che uccide il coraggio necessario per fare un passo avanti. In questo modo si crea un circolo vizioso, alimentato dalla paura, da cui non si esce. E’ quello che nel mio libro chiamo “il paradosso della gerarchia”.
Ma quindi la gerarchia va abolita?
Assolutamente no, di gerarchia ce ne vuole di più. La gerarchia è una risorsa perché ci aiuta a dare un ordine di importanza. Senza gerarchia saremmo nel caos. Noi costruiamo continuamente gerarchie, di cui spesso non siamo consapevoli: gerarchie di competenze, gerarchie valoriali, gerarchie delle priorità, degli affetti, della fiducia… Ma le nostre organizzazioni sono prigioniere di una gerarchia conservativa basata sulla paura, che mantiene rigida la logica decisionale. Chi dice che è sempre utile che decida sempre il ruolo più alto? Chi dice che molti problemi non sarebbero risolti prima e meglio da chi quei problemi li vive tutti i giorni? E siamo sicuri che non sia efficiente lasciare che i team di lavoro non possano prendere alcune decisioni autonomamente? Di gerarchie ce ne vogliono tante di più, non di meno. La gerarchia va fatta evolvere. Io non credo alle ricette. Ogni organizzazione deve trovare la sua strada. Sarà un percorso lungo. Ma è ora di iniziare. E nel mio libro fornisco indicazioni di lavoro per partire.
Intervista di affaritaliani.it