Parliamo sempre di leadership ma mai di gerarchia. Eppure la gerarchia è la struttura portante delle nostre organizzazioni, e incide pesantemente sul benessere delle persone e dei risultati. Per “leadership” intendiamo l’insieme degli approcci e dei comportamenti efficaci per guidare gli altri. Da decenni si pubblicano libri sulla leadership che arricchiscono il nostro pensiero con modelli e strumenti, e le aziende investono notevoli risorse per aiutare i manager ad ascoltare e coinvolgere i propri collaboratori per favorirne l’iniziativa, la crescita e lo spirito di squadra. La “gerarchia” organizzativa, invece, è la struttura che distribuisce il potere decisionale allocandolo sui ruoli e sub-ordinandoli in termini di importanza. Se nella leadership il focus è sui comportamenti, che sono certamente importanti, nella gerarchia si tratta di potere decisionale. La gerarchia, quindi, produce gran parte delle regole del gioco perché disegna le reali autonomie. Per questo costituisce la struttura portante di ogni organizzazione. Noi, però, parliamo e scriviamo moltissimo di leadership. Della gerarchia non parliamo mai.
Eppure l’immagine che meglio rappresenta le nostre organizzazioni è una piramide, che sintetizza la gerarchia. Lo schema è semplice. I singoli ruoli, che sono i mattoncini della piramide, vengono disposti sull’asse verticale in funzione dell’ampiezza del potere decisionale che, più si sale, più aumenta. Nella piramide tutto aumenta salendo: anche la richiesta di un contributo di pensiero, la responsabilità, e tanto altro. C’è solo una cosa che, salendo, diminuisce: la prossimità con i clienti. Questa struttura portante ha ricadute significative sul benessere del business e delle persone.
Sul business, l’effetto immediato è duplice: lentezza e sfocatura del cliente. Lentezza, perché la maggior parte dei problemi per essere risolti devono risalire la piramide: per approdare sulle scrivanie dei decisori, devono mettersi in coda e aspettare (si sa che i capi sono sempre molto occupati), e, quando arriva il loro turno, il decisore ha bisogno di dati per comprenderli, ma non tutto si capisce dai dati, e quindi servono analisi, servono riunioni. I capi, di fatto, fanno da tappo. E intanto, problemi che erano nati piccoli, in attesa di essere risolti si ingrossano. Non stiamo dicendo che tutti debbano poter decidere tutto, stiamo solo portando l’attenzione sul fatto che oggi la struttura portante delle nostre organizzazioni è disegnata in modo da dare il minimo e non il massimo potere decisionale possibile a chi ha la maggiore prossimità con i clienti finali, cioè le persone in carne ed ossa che acquistano prodotti e servizi generando reddito. Questo fatto, però, non sembra disturbare più di tanto perché, nella piramide, tutti hanno la testa rivolta verso l’alto, verso i capi, che decidono anche le carriere. Nel mio libro Non morire di gerarchia, edito da FrancoAngeli, chiamo questa postura “il torcicollo della gerarchia”. Così il cliente finale va fuori fuoco perché la piramide orienta lo sguardo altrove, indirizzando il grosso dell’attenzione sul capo e orientando il lavoro soprattutto per soddisfare le sue richieste. Detto in sintesi, il vero cliente della gerarchia è il capo. Fare quello che chiede il capo, nella piramide attuale, è la cosa più importante: e questo non è detto che concorra sempre al benessere del business.
E qual è l’effetto della gerarchia sul benessere delle persone? La piramide porta le persone a pensare, agire e relazionarsi in coerenza con il loro livello gerarchico. La stella polare della gerarchia è l’organigramma. Al di là dei dichiarati, i ruoli vengono considerati più importanti delle persone. Di conseguenza, l’ascolto aumenta quando è rivolto verso l’alto. Pensando “come l’organigramma”, la maggior parte dei capi coltiva l’illusione che, essendo sopra, basti dire a chi sta sotto quello che deve fare per ottenere risultati. D’altra parte, chi lavora ai livelli bassi non pensa di essere pagato per pensare, cogliere opportunità, prendere l’iniziativa. Questo può fare comodo ad alcuni ma per molti è fonte di frustrazione e di demotivazione. E, modellati dal mindset gerarchico, capi e collaboratori sembrano condividere la convinzione che il controllo dall’alto sia più importante dell’auto-controllo di chi svolge l’attività. E quando si sbaglia, mentre i comportamenti di leadership insegnano che di fronte agli errori non bisogna cercare il colpevole ma la causa, ed è utile condividerli per imparare tutti in modo da non ripeterli, nelle nostre organizzazioni le persone tendono a nascondere gli errori per il timore delle conseguenze. Così come pochi si espongono per chiedere aiuto, fare una proposta molto innovativa o, semplicemente, fare domande ad esempio nelle riunioni. Disegnato così, questo campo da gioco non è certo il più agile per produrre i risultati attesi, e magari andare oltre. E questo genera ansia, innanzitutto nei capi. Allora chi è sopra, avvertendo la pressione per i risultati, riprende chi è sotto e lo spinge a correre, e chi è ripreso e spinto fa lo stesso con i propri collaboratori, e via così, giù per tutta la piramide, creando vere e proprie filiere dell’ansia. Ma con questo schema di gioco, anche se le persone corrono, non è detto che l’organizzazione diventi più veloce perché (le neuroscienze ce lo insegnano da tempo) più ansia significa meno problem solving, meno ascolto, meno lucidità. E, soprattutto: più ansia, più malessere.
Vedete qualche legame tra come funziona oggi la gerarchia con i fenomeni del great resignation (grandi dimissioni) e del quit quitting (fare il minimo indispensabile), e con la riluttanza dei giovani ad entrare o rimanere nelle aziende?
Di conseguenza, servirebbero davvero comportamenti di leadership per ascoltare, coinvolgere, stimolare l’iniziativa, far crescere. Ma nelle nostre organizzazioni, la gerarchia si mangia la leadership a colazione.
E, quindi, dobbiamo considerare la “leadership” buona e la “gerarchia” cattiva? Ovviamente no. Il problema è che abbiamo un concetto troppo ristretto della gerarchia. Mentre sull’evoluzione della leadership ci interroghiamo da decenni, non ci chiediamo mai come possiamo far evolvere la gerarchia. Infatti, pur facendo moltissimi cambiamenti in azienda, comprese le ricorrenti riorganizzazioni, la logica di distribuzione del potere decisionale rimane la stessa, come l’abbiamo ereditata dal passato.
Peccato. Perché lavorare sull’evoluzione della gerarchia spalancherebbe prospettive inedite.